Angie è una giovane donna divorziata con un figlio undicenne, Jamie, che vive con i nonni. Licenziata in tronco da un'agenzia per cui procurava manodopera proveniente dai paesi dell'Est, Angie decide di mettersi in proprio. Insieme all'amica Rose crea un'agenzia di reclutamento che gestiranno in coppia. Il confronto con la realtà dell'immigrazione, clandestina e non, le imporrà delle scelte che non andranno tutte nella stessa direzione. Ken Loach è un regista che si potrebbe definire 'necessario'. Necessario perché a ogni film (sia che parli di Glasgow, di Irlanda o di Spagna nella guerra civile) ci ricorda che questo mondo, il nostro mondo occidentale, non è il paradiso ma, a differenza di altri che accettanno ciò come un dato di fatto ineludibile, lui pensa che qualcosa si possa fare. L' "I care/Mi riguarda" di kennediana memoria è per lui un imperativo categorico a cui va data attuazione. La quasi debuttante Kierston Wareing gli offre un valido aiuto sfaccettando il suo personaggio e offrendogli quelle variazioni dal positivo al negativo che spingono lo spettatore ad alternare adesione e repulsione nei suoi confronti. Loach afferma: "Lo sfruttamento è cosa nota a tutti. Quindi non si tratta di una novità. La cosa che ci interessa di più è sfidare la convinzione secondo la quale la spregiudicatezza imprenditoriale è l'unico modo in cui la società può progredire; l'idea che tutto sia merce di scambio, che l'economia debba essere pura competizione, totalmente orientata al marketing e che questo è il modo in cui dovremmo vivere. Ricorrendo allo sfruttamento e producendo mostri". Angie è un 'mostro' che sembra non accorgersi di esserlo. In lei convivono il bisogno di riscatto, la generosità e la più fredda e letale determinazione. È una donna che vuole sfondare in un territorio tipicamente maschile finendo con il fare proprie le caratteristiche più negative dell'altro sesso. Quasi come se Loach sentisse su di sé la differenza di approccio generazionale alle problematiche sociali le offre (grazie alla scrittura del suo più che fedele sceneggiatore Paul Laverty) uno specchio in cui riflettersi: l'anziano padre che, vedendola all'opera, non può non dirle: "Stiamo tornando ai vecchi tempi"? Ai vecchi tempi si usavano termini come sfruttamento, riduzione in schiavitù, proletariato. Oggi tutto è molti più soft. Il lavoro è 'interinale'. I contratti sono 'a termine'. Ma la realtà è ancora, dolorosamente quella.
Provocatorio, offensivo, romantico. Il capolavoro di Terry Gilliam arriva finalmente in Italia (ultimo paese al mondo). Fiaba nera, imperdibile e indipendente, Tideland-Il mondo capovolto (2005) è uscito in 25 copie e la neonata Officine Ubu, che distribuisce, non può diffonderlo ovunque (a Roma è al Farnese e al Politecnico). È una storia sconvolgente che, aggrappandosi a Lewis Carroll, diventa sostenibile. E che lancia Jodelle Ferland, star di 9 anni e mezzo della tv canadese, qui capace di trasformarsi in 19enne o 30enne a seconda delle necessità del copione, lì dove la situazione potrebbe traumatizzarla ed è invece lei, aiutata dalle sue 4 bamboline dalla testa mozza, a traumatizzarci con innocenza feroce (a 9 anni si metabolizzano da dio i telefilm, meglio degli adulti). Tideland è un western d'oggi, dark e d'amore, in cui le lucciole hanno un nome e si nuota, preferibilmente in aria e sottoterra. Pauroso, ma dalla luce gialla radiante, che non lascerà nessuno indifferente si amerà o si odierà. Sentimenti estremi, introvabili all'uscita dei multiplex ormai, quasi proibiti. L'epilettico Brendan Fletcher, la nemica delle api Janet McTeer e la schizzata Jennifer Tilly nel cast. Tideland («La terra della marea») è tratto dal bestseller profetico (è impregnato di immagini dei disastri a venire), scritto nel 2000 dal trentenne texano Mitch Cullin. Lo scrittore fa capolino in una scena, sull'autobus, seduto dietro a un impresentabile e maleodorante Jeff Bridges, il «Mastroianni di Terry Gilliam», che dirige esibendo «la bontà e il mostro» che sono in noi e in una rock star, metà rosa e metà nero, trasformandolo nel protagonista meno imbalsamabile dell'anno. In Tideland c'è tutto quel che angoscia oggi il cittadino d'Occidente: eroina, anoressia e overdose; terrorismo, necrofilia e putrefazione della carne; petomania, pedofilia e violenza ai minori; follia, lobotomia e esotismo... eppure è un film che dice un grande sì alla vita. E rovescia il nostro modo di trattare l'infanzia solo come vittima sacrificale (leggi dati Onu), mentre è anche un unghiuto osso duro. Lo scopo è anche offendere la religione, per l'«esclusiva» che pretende di avere sulla morte. Provocare è, al contrario, un valore dell'Occidente, la libertà di parola e di espressione fino all'offesa. Se non fosse così, senza Illuminismo, qui e nell'Islam (non Abdullah II, re wahabita che incontra Ratzinger in questi giorni per far patti integralisti) metà delle commedie che si realizzano (e delle vignette, e dei cori ultrà) sarebbero illegali. Già, ma i cori ultrà offensivi sono già illegali.... Iconograficamente questa fiaba nera è molto ricca e provocatoria. C'è dentro Alice nel paese delle meraviglie e Psycho di Hitchcock, testoline semi-Barbie surrealiste, e dunque Svankmeyer; Bunuel del Cane andaluso e Walt Disney, l'adorato maestro di Gilliam (che è soprattutto un cartoonist), visto lo scoiattolo parlante. Il clima è da Zazie di Queneau. Molto citato il pittore gotico delle praterie, Andrew Wyeth, a cui il direttore della fotografia, il «nostro» esule Nicola Pecorini, ha aggiunto fish-eye, dinamismo da sublime steady-cameraman e un po' di acido lisergico degno di Paura e delirio a Las Vegas. La luce e i campi di grano sono autobiografici, ricordano il natio Minnesota del regista (ma il set è in Canada, perché solo lì Gilliam ha trovato la produttrice, con sensibilità e coraggio adeguati all'impresa). Il regista inglese (ha appena rinunciato alla seconda cittadinanza Usa) che viene da Monty Phyton e passa per Brazil, Il senso della vita, Munchausen e altri capolavori né mainstream né underground, lo ha re-interpretato usando uno schema che, per ritmo narrativo, è antitetico alle leggi «aristoteliche» di Hollywood. Il metodo Gilliam è un fluxus continuo: 1.catturare subito il pubblico. 2. Tenerne costantemente desta l'attenzione, con ogni trucco 3. finire con qualcosa di memorabile. Missione compiuta.
Festival e Premi Miglior Documentario Italiano Torino CinemAmbiente 2007 XXV Bellaria Film Festival 2007 II Festival del documenatario di Siena 2007 Festival del documentario la città del Sole, Sestino, Arezzo 2007 Jonio Educational Film Festival 2007
Perché quasi quindici milioni di persone nei paesi in via di sviluppo muoiono di malattie facilmente curabili? Sono circa quarantamila persone al giorno: uno stadio di calcio gremito durante una finale di coppa. Un massacro quotidiano che potrebbe facilmente essere evitato. Perché tutto ciò accade? Le vie dei farmaci è un documentario che cerca di rispondere, dal punto di vista economico, politico, medico e sociale a questa domanda. L’accesso ai farmaci essenziali e salvavita dovrebbe infatti essere garantito a tutti. Il documentario cerca di indagare il problema su scala mondiale raccogliendo materiale filmato dai quattro angoli del pianeta ed utilizzando un linguaggio filmico articolato e senza compromessi.